Era un burocrate sulla cinquantina. Dotto. Simone Dotto era un ingranaggio perfetto della macchina imperfetta della burocrazia italiana. Il suo lavoro erano le cartelline verdi: le prendeva quando erano vuote, nude e ancora vergini. Preparava i semi con cui ingravidarle: i moduli B, E e G. E poi metteva a battesimo il nuovo nato siglando la cartellina con il nome del destinatario di quel fascicolo. Lo faceva da 30 anni. Era attento, scrupoloso e preciso. Non gliene fregava niente di quei moduli ma il suo spiccato senso del dovere gli impediva di portare a termine un lavoro che non fosse fatto bene. “Fammi un lavoro pulito con queste”, gli diceva il capo ogni volta che gli consegnava le nuove arrivate. E a lui sembrava tanto una frase da gangster del ghetto che intima allo scagnozzo di fare un lavoro sporco nel modo più pulito possibile. In estrema sintesi era quello che faceva lui: un mestiere che odiava ma che cercava di portare a compimento al meglio. Questo gli bastava per riuscire a trascorrere le ore in ufficio senza controllare l’orologio ogni 10 minuti come facevano i suoi colleghi di area. Lui riusciva a guardarlo solo ogni 20, alle volte anche 25. Fino a che arrivava il momento peggiore della giornata: l’ingresso in ascensore e il rientro a casa.La mente si ripuliva dei fascicoli verdi. Il verde spariva e si faceva prepotente il rosso delle pareti dell’ascensore che gli faceva venire in mente quel bagaglio di ricordi che aveva deciso di seppellire sotto pile e pile di moduli. Un passato universitario pieno di speranze. Un amore vibrante. Occhi pieni di vita, sogni e progetti. In una parola: passione. Il “dlin dlon” dell’ascensore arrivato al piano terra era il segnale d’inizio dei pensieri che lo avrebbero accompagnato fino a casa. Il refrain comune delle sue elucubrazioni era il rimpianto. Il rimpianto di tutto quello che non aveva fatto e, soprattutto, che non aveva detto. Per tutto il tragitto a piedi o in tram (lo prendeva quando voleva accorciare il più possibile quest’agonia mentale), il cervello gli si affollava di tutte le frasi che non aveva detto al momento giusto, che non aveva avuto il coraggio di far uscire dalla bocca e far diventare reali, che erano rimaste sempre in potenza e non erano mai diventate atto. Arrivato a casa, girava la chiave nella toppa, posava frettolosamente la sua valigetta in camera e fuggiva in cucina per accendere la televisione: il led verde dello schermo era il segnale di fine dell’agonia dei pensieri. Chiacchiericci isterici o, quando andava bene, un buon vecchio film si facevano posto nella sua testa e il verde riprendeva a esserne il protagonista per tutto il giorno dopo, fino al momento fatale nell’ascensore. In un circolo continuo.
Un giorno al sig. Dotto, responsabile area “Fascicoli verdi”, stanza 307, capitò qualcosa che spezzò il circolo. Arrivò il solito momento di stoppare il verde e di dare il via al rosso dei pensieri. Il rosso quel giorno era tutto sommato sopportabile e decise di fare il tragitto che lo conduceva a casa a piedi: in fondo faceva pendant con il tramonto di quell’ora, pensava. Solito schema quindi: dlin dlon dell’ascensore, frasi mai riuscite a pronunciare tutte nella testa, fuga in cucina verso il verde della fine dei pensieri. Proprio in quel momento, con la chiave nella toppa, l’intoppo: le frasi mai pronunciate in passato si sincronizzarono a tal punto nella sua testa che il sig. Dotto sentì un clic. Un clic che non era nè il dlin dlon dell’ascensore rosso nè il fischio muto del led verde della televisione. Era qualcosa di molto diverso e che preannunciava qualcosa di altrettanto diverso: la rottura di ogni routine. Da quel momento le frasi che non avevano mai avuto il coraggio di uscire dalla testa e sfondare il muro della bocca lo fecero di prepotenza. Il sig. Dotto non poteva fare a meno di pronunciarle. In una sorta di bulimia verbale, al vicino che in quel momento stava varcando la porta accanto non poté evitare di dire: “adoro come suoni il pianoforte e adoro le tue mani”. Rosso, di vergogna e di parole, fuggì dentro, in preda a un delirio bicromatico. Lui era il sig. Dotto dell’aera “Fascicoli verdi”, stanza 307, non era più la persona che aveva partorito quelle frasi anni e anni prima. Oggi, con tutto quel verde e quel lavoro da fare, non avrebbe neanche il tempo di pensarle certe cose! Ma il clic era tratto e il Rubicone della sua testa era stato superato. Le frasi rosse mai pronunciate non avevano intenzione di mettersi da parte rispetto alle cartelline verdi: era iniziata una di quelle guerre cromatiche per cui ogni fashion stylist scuoterebbe la testa o gongolerebbe.
E allora, da quel giorno, il sig. Dotto comprava il giornale a suon di “Oggi hai un sorriso meraviglioso” e ringraziava la cassiera del suo supermercato di fiducia con un “Ero a pezzi oggi, quest’uscita con voi mi ci voleva proprio, grazie”. Tirava fuori il biglietto per il controllore sul tram dicendo: “So che eri sola quella notte di Natale, lo ero anch’io. Avrei tanto voluto venire sotto casa tua, chiamarti e abbracciarti ma non ne ho avuto il coraggio” e salutava i colleghi in ufficio quando stava per rientrare a casa con “Mi ammazzo se finisco a fare questo lavoro tutta la vita”, che era quello che aveva pensato il giorno che aveva messo piede nella stanza 307 per la prima volta.
All’inizio ci fu lo stupore. Poi, com’è tipico, seguì il pettegolezzo: diventò l’argomento del mese. Si inventarono storie su di lui. C’era chi diceva che era una cura che gli aveva prescritto lo psicologo perchè aveva quella malattia lì, la sensibilità. Gran brutta cosa per un burocrate. Altri pensavano che fosse un modo per spiazzarli, che in fondo chi ha deciso di occuparsi di fascicoli verdi per tutta la vita doveva nascondere un lato estroso, come il colore di cui si occupava. E chi pensava che fosse una buonissima scusa per lavorare meno: “Tutte quelle chiacchiere e poi il lavoro suo chi lo deve fare? Io!”, diceva la signora grassa e dalla voce sabbiata del settore “Moduli Gialli”, l’Aretha Franklin del secondo piano. Fino a che, come accade per tutti i pettegolezzi, la cosa scemò e il sig. Detto, come iniziarono a chiamarlo in quanto fenomeno da baraccone dello stabile, diventò il personaggio un po’ strambo sulle cui caratteristiche atipiche gli anziani della burocrazia informavano gli stagisti appena arrivati: “Ha qualche rotella fuori posto e dice cose sconnesse ma è a posto, non puzza neanche”. Ci si abituarono, insomma. E finì con l’abituarsi anche lui, fino al giorno in cui in un letto d’ospedale rivolse al medico le sue ultime parole: “Ti voglio bene, mamma”.
Antonella Capalbi
Antonella Capalbi, 25 anni, è laureata in Lettere antiche presso l’Università degli Studi di Bari e specializzata in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Torino. Attratta da sempre da tutto ciò che è linguaggio e capacità di racconto, nel corso della sua formazione ha affiancato alla preparazione degli esami universitari un’intensa attività di scrittura per riviste cartacee e on-line prima a Matera, sua città d’origine, poi a Bari e infine a Torino. In quest’ultima città, ha partecipato per due volte al premio letterario “Piemonte Mese”, indetto dall’omonima rivista, meritando entrambi gli anni una menzione per i due articoli presentati. Al momento è dottoranda all’interno dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
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