“Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non sapere né leggere né scrivere che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza né voglia di stare attenta a ciò che le accade intorno, o dentro la testa”. L’autore di queste audaci considerazioni, non proprio adatte alla promozione di festival letterari, è l’inglese William Hazlitt, studioso di Shakespeare e considerato tra i maggiori critici e umanisti della prima età romantica.
Un uomo di cui tutto si può dire tranne che fosse spaventato dai paradossi, nemmeno da quelli che gli si potevano ritorcere facilmente contro. Hazlitt era uno scrittore apprezzato ed era, da studioso di letteratura, anche un lettore accanito. Si potrebbe quindi pensare che quelle sue idee le avesse tenute per sé, per un diario da tenere chiuso nel cassetto e ritrovato per caso dopo la sua morte. O che le avesse tutt’al più indirizzate in una lettera privata a un amico poi rivelatosi di scarsa discrezione. E invece Hazlitt mise la firma sotto quelle affermazioni sui periodici britannici più diffusi della sua epoca, perché arrivassero ad altri lettori – e ad altri scrittori – e li facessero sobbalzare, almeno un po’, sulle loro poltrone. Nella migliore tradizione anglosassone, mise in pratica l’idea che paradossi e contraddizioni – compresi i più iperbolici – sono i benvenuti, se servono a richiamare l’attenzione sulla realtà, a mettere alla berlina il sussiego dei parrucconi, a fare appello al discernimento dell’individuo, a segnalare i danni delle “idee ricevute”, che non è un malanno solo dei suoi tempi.
Di tutto questo fu dunque maestro William Hazlitt, come testimonia la raccolta di sette saggi che l’editore Fazi sta ripubblicando nella collana “Le meraviglie”, e che costituisce un buon campionario delle magnifiche idiosincrasie del loro autore. La raccolta si intitola “L’ignoranza delle persone colte” (traduzione di Fabio De Propris, 180 pagine, 14,50 euro) e contiene alcuni degli articoli pubblicati da Hazlitt nella rubrica “Table-Talk”, che tenne sul London Magazine dal giugno del 1820 al dicembre dell’anno successivo.
Nato a Maidstone, nel Kent, il 10 aprile 1778, e morto a Londra il 18 settembre 1830, Hazlitt visse in quell’età davvero “di mezzo” che cominciò con le guerre d’indipendenza americane e termino con la fine dell’età georgiana. Furono anche gli anni dell’affermazione britannica nelle guerre napoleoniche (con Hazlitt che simpatizzava apertamente per l’imperatore francese), e anche quelli della nascita, con Lord Brummel, della figura del dandy (da Hazlitt sbeffeggiata senza riguardo. Vedi, nel libro in uscita, l’articolo intitolato: “Sull’effeminatezza del carattere”). Hazlitt era figlio di un pastore unitariano di origini irlandesi, che si chiamava William come lui, aveva avuto come insegnante Adam Smith e nel 1783, con la famiglia, si era trasferito negli Stati Uniti, a Boston, dove aveva predicato, insegnato e fondato una chiesa unitariana, prima di tornarsene in Gran Bretagna quattro anni dopo. Anche l’autore dell”‘Ignoranza delle persone colte”, ultimo dei cinque figli del reverendo Hazlitt, era stato destinato alla carriera di pastore, ma strada facendo aveva disertato per sopraggiunta fragilità di fede. Non era da un pulpito ecclesiastico che aveva voglia di fare prediche, e su di lui – senza pensare al soggiorno nell’America da poco indipendente, durante il quale era ancora un bambino – influì la fascinazione per le idee rivoluzionarie in arrivo dalla Francia, più tardi mitigate (o meglio, rilette) alla luce della lezione del liberale Edmund Burke.
Hazlitt averebbe lasciato il segno sulla sua epoca. Poté contare su uno spirito brillante e beffardo, stimolato dalle sue scarse illusioni sulla bontà della natura umana, anche se delle teorie di Hobbes diceva che lo disgustavano mentre, al contrario, si dichiarava fervido ammiratore di Jean-Jacques Rousseau (abbiamo visto quanto gli piacevano i paradossi). La sua fama si deve soprattutto del modo eccentrico con cui seppe incarnare il ruolo di bastian contrario (o di coscienza critica, se si preferisce). Mai in modo gratuito e fine a se stesso, anche se dovette scontare a più riprese ostracismi e perenni antipatie, suscitati soprattutto dagli scritti giornalistici. L’eccentricità, del resto, per gli inglesi non è mai stata un difetto. Salvo, forse, nel campo dello stile: più è sgradevole, paradossale e caustico il contenuto degli articoli di Hazlitt, più il suo periodare si rivela studiatamente semplice, netto, vicino alla lingua parlata. Secco e diretto come uno schiaffo.
Era morto da un centinaio d’anni ma era ancora ben vivo il suo ricordo, quando Virginia Woolf scrisse di lui, nel secondo volume del “Lettore comune” (in Italia tradotto dal Melangolo): “Hazlitt – ed è uno dei suoi meriti principali – non era uno di quegli scrittori che evitando di pronunciarsi svaniscono nella nebbia e muoiono d’insulsaggine. Nei suoi saggi lui è presente, sempre e con enfasi. Senza remore e senza vergogna. Dice esattamente ciò che pensa e dice esattamente – confidenza meno lusinghiera – quel che prova. Aveva una straordinaria consapevolezza della propria esistenza; e siccome non passava giorno che non gli infliggesse uno spasmo d’odio o di gelosia, un fremito d’ira o di piacere, nel leggerlo entriamo presto in contatto con un carattere singolarissimo – bisbetico e insieme magnanimo; gretto e tuttavia nobile, assolutamente egoista eppure ispirato da genuina passione per i diritti e le libertà del genere umano”.
Un incorreggibile antipatico, che per tutta la vita studiò il modo di perfezionare quell’atteggiamento così come altri si industriano nell’arte della “captatio benevolentiae”. Hazlitt non volle essere quello che oggi definiremmo un “piacione”, né mostrarsi vagamente compiacente, nemmeno con chi gli era amico. Tra i suoi corrispondenti ci furono alcuni tra i più illustri letterati del suo tempo: i fratelli Charles e Mary Lamb, Stendhal (l’unico con il quale l’ammirazione reciproca non soffrì mai l’ombra di un contrasto), Samuel Coleridge, William Wordsworth, il poeta John Keats. Ma l’amicizia e la consuetudine non gli impedirono di esercitare anche nei loro confronti la critica più tagliente, se gli sembrava che ce ne fosse qualche motivo. Coleridge gli dedicò un ritratto da cui Hazlitt emerge come una persona silenziosa, dai modi scostanti, dall’espressione quasi sempre corrucciata, “geloso, cupo, orgoglioso, permaloso e dedito alle donne”. Ma era il primo ad apprezzarne “i pensieri ben appuntiti”. Un caratteraccio. Eppure Keats scrisse il 10 gennaio del 1818 all’amico pittore Benjamin Haydon che nella loro epoca esistevano tre cose di cui poter godere: i quadri dello stesso Haydon, il poema di Wordsworth intitolato “L’escursione” e “la profondità di gusto di Hazlitt”.
Quel gusto ha fatto parlare di lui come di un Montaigne britannico. In realtà, con l’autore degli “Essais”, Hazlitt condivide la scelta introspettiva che sfocia in una filosofia del quotidiano, oltre alla predilezione per la forma colloquiale. Ma, rispetto al francese, Hazlitt è infinitamente più sarcastico e in cerca di provocazioni. Se proprio è necessario trovargli un precedente, andrebbe allora cercato in Jonathan Swift: un altro irlandese votato alla satira sociale e dedito a farsi beffe del trombonismo travestito da cultura degli “sputasentenze”. I quali – scrisse l’autore dei “Viaggi di Gulliver” nel “Saggio critico sulle facolta della mente” – “sono come i vasi, i quali suonano tanto più forte quanto più sono vuoti”. In effetti, il mondo disprezzato da Hazlitt – quello degli schiavi dei luoghi comuni, incapaci di formulare un pensiero o un giudizio se non portandosi in tasca il libro da cui li hanno mutuati – assomiglia all’isola volante di Laputa immaginata da Swift. Un luogo abitato da sussiegosi uomini di scienza e inventori, insigni matematici, astronomi, musicisti incapaci di guardare dove mettono i piedi. Se i valletti degli scienziati di Laputa sono costretti a usare un sottile bastone con appesa una vescica gonfiata, con la quale richiamare i loro padroni, con leggere toccatine, alla realtà, Hazlitt si assegna lo stesso compito rispetto ai suoi contemporanei. Solo che decide di non usare sottili bastoni come i valletti di Laputa ma, all’occorrenza, la clava. Lo fece, per esempio, criticando violentemente il “Saggio sui principi della popolazione” di Malthus (primo teorico del controllo delle nascite nelle classi povere), che gli sembrava un perfetto esempio di idiozia.
Nessuno o quasi si salva dalla furia di Hazlitt: né sant’Agostino né il filosofo cinquecentesco Girolamo Cardano, non il teologo anglicano Daniele nemmeno l’umanista cattolico tedesco Caspar Schoppe, autore di una dottissima “Grammatica philosophica” pubblicata a Milano nel 1628: di tutta la carta da loro prodotta, scrive Hazlitt, si potrebbe fare senza alcun danno un bel falò: “Ecco come viene usato il sapere umano. Sembra che i lavoratori di questa vigna abbiano lo scopo di confondere il senso comune e le distinzioni fra il male e il bene per mezzo di massime tradizionali e di nozioni preconcette che diventano sempre più assurde col passare del tempo. Fanno ipotesi su ipotesi, ci innalzano montagne, finche non è più possibile giungere alla più semplice verità su alcunché. Vedono le cose non come sono, ma come le trovano nei libri, e chiudono gli occhi e cancellano i dubbi per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. Si direbbe che la forma più alta della saggezza umana consista nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che e insensato”.
Ma se non ci si fa respingere dalla sua irruente – e brillantissima – invettiva, nella quale mancano solo la parola “culturame” e la promessa di metter mano alla pistola a sentir nominare la cultura, si arriva al cuore vero del pensiero di Hazlitt: “Le persone più giudiziose che s’incontrano nella società sono gli uomini d’affari e gli uomini di mondo, che ragionano di quel che vedono e sanno, invece di far delle distinzioni sottili su come le cose dovrebbero essere. Le donne hanno spesso più ‘buon senso’ degli uomini. Hanno meno pretese, sono meno impacciate dalle teorie, giudicano le cose più dalla immediata e involontaria impressione e quindi in modo più sincero e naturale. Non possono ragionare male, perché non ragionano affatto. Non pensano o parlano seguendo delle regole perché in genere possiedono più eloquenza, spirito e buon senso, unendo i quali riescono in genere a governare i mariti. Il loro stile, quando scrivono alle loro amiche (e non per i librai), è migliore di quello di molti scrittori. Le persone che non hanno un’istruzione hanno un’inventiva esuberante e sono senz’altro libere dai pregiudizi. Shakespeare fu poco istruito, come risulta chiaro tanto dalla freschezza della sua immaginazione quanto dalla varietà dei suoi concetti. Milton invece sa di accademia, tanto nel pensiero, come nel sentimento. Shakespeare non aveva dovuto svolgere a scuola dei temi in favore della virtù e contro il vizio. Dobbiamo a questa circostanza il tono sano e non affettato del suo teatro. Se desideriamo conoscere la forza del genio umano dobbiamo leggere Shakespeare. Se vogliamo constatare quanto sia insignificante l’istruzione umana possiamo studiare i suoi commentatori”. Quest’ultima affermazione fa perdonare ad Hazlitt qualsiasi malignità: si da il caso che tra i commentatori di Shakespeare (anzi, tra gli iniziatori della moderna critica shakespeariana), ci sia proprio lui, William Hazlitt, con la raccolta di saggi sui “Personaggi dei drammi di Shakespeare”, pubblicata nel 1817.
Più figlio di Swift che di Montaigne, dunque, Hazlitt è debitore dichiarato di Samuel Butler, lo scrittore secentesco famoso soprattutto per il poema satirico “Hudibras”, nel quale si prendeva gioco di fanatismi e pedanterie del puritanesimo. Butler, figlio di un prete di campagna, dopo la King’s School di Worcester aveva avuto accesso alla ricca biblioteca della sua prima padrona, la contessa di Kent, presso la quale serviva come maggiordomo. Di quest’altro clandestino nel tempio della cultura, Hazlitt sceglie una citazione – da “Hudibras”- come esergo all'”Ignoranza delle persone colte”: “Più lingue un uomo apprende più danni arreca al suo talento: e il tempo e la fatica spesi li sconta tutti interi in qualche modo. L’ebraico, il siriaco e il caldeo son lingue che confondon la ragione, e stravolgon la mente che si sforza di funzionare al contrario, in accordo ai loro alfabeti mancini. Eppure chi sa dire solamente assurdità, ma in diverse lingue passerà per più colto di colui che sa ragionar bene nella propria”. E Hazlitt rincara la dose: “Chiunque sia passato per i gradi regolari dell’educazione classica senza esser stato ridotto all’imbecillità si può ritenere salvo per miracolo”.
È la vanità la bestia nera di Hazlitt, soprattutto quando è accompagnata dalla sua sorella gemella, la saccenza, di cui egli riteneva che la società e l’accademia inglese ne fossero pervasi: “L’istruzione è la conoscenza di ciò che gli altri in genere non sanno, e che non possiamo apprendere che di seconda mano per mezzo dei libri, o di altre sorgenti artificiali. La conoscenza di ciò che è davanti o intorno a noi, che fa appello alla nostra esperienza, alle nostri passioni o ai nostri progetti, al cuore e agli affari degli uomini, non è istruzione. L’istruzione è la conoscenza di quello che solo le persone istruite conoscono. Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che vi è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica, che non può essere provato dall’esperienza e che, dopo esser passato attraverso un gran numero di stadi intermedi, resta ancora pieno di incertezza, di difficoltà e di contraddizioni. È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, e credere ciecamente al giudizio degli altri. La persona istruita e fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non di quella di uomini e cose. Non pensa e non s’interessa ai suoi vicini di casa, ma è al corrente degli usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi”.
Non è, questo tratteggiato da Hazlitt, il ritratto del classico “esperto”, autorizzato a disprezzare il buon senso in nome di un’investitura accademica, in omaggio a quell’idea ridicola – quasi mai percepita come tale- per cui un contadino o un commesso ne saprebbero meno, di vita e di morte, rispetto a un anatomopatologo o a uno psicologo laureato? “Lo scopo inevitabile di tutte le istituzioni culturali non è di diventare sapienti o d’insegnare la sapienza ad altri, ma d’impedire a chiunque altro di diventare o sembrare più sapiente di loro”, scrive Hazlitt delle università inglesi. Vanità e saccenza, per lui, sono coalizzate per uccidere l’immaginazione, che invece e la vera protagonista positiva dell'”Ignoranza delle persone colte” e che non può che nascere dal vedere “le cose come sono”. È spesso la mancanza di immaginazione a farci credere nella superiorità di chi si da delle arie: “Pili cultura le persone possiedono o pili sono addentro a un certo argomento, tanto pili volentieri comprendono e sono pronte a riconoscere che qualcuno e superiore a loro, cosi come loro si sentono tali nei confronti di altri. Ma dal basso, ottuso livello dell’ignoranza e della volgarità, non può sorgere alcuna idea e alcun amore per le cose elevate. Pensi di comportarti veramente bene con questa gente evitando qualunque sfoggio di pedanteria e di grandezza, credi di passare per un tipo semplice, modesto, alla mano. Non funziona. Mentre tenti questi approcci amichevoli, e ti sforzi di essere naturale, quelli vogliono recuperare lo svantaggio nei tuoi confronti. Puoi benissimo dimenticare di essere uno scrittore, un artista, o che altro: loro non dimenticano mai che non sono nessuno e non perdono mai il desiderio di vederti nella stessa condizione”.
In “William Blake” (da poco pubblicato da Medusa), l’appassionato saggio che Gilbert K. Chesterton nel 1910 dedico al pittore e poeta dei “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza”, troviamo un elogio dell’immaginazione che sarebbe piaciuto ad Hazlitt. È l’immaginazione che si nutre della realtà, del fatto di vedere le cose per come sono, senza farsi ricattare dal sapere libresco o dalla ricerca cervellotica di originalità. Blake (un altro mezzo irlandese), secondo Chesterton doveva la propria unicità al fatto di essere stato un piccolo borghese “figlio di bottegai”, senza ambizioni intellettuali: “I suoi costumi e la sua morale furono formati alla solita vecchia maniera; nessuno penso mai di formare la sua immaginazione, il che probabilmente fu la maggior fortuna per questo ragazzo trascurato”.
Di vent’anni più giovane di Blake, Hazlitt aveva provato a lungo, a sua volta, a guadagnarsi da vivere dipingendo, sulla scia del successo del fratello John, pittore affermato. Per questo arrivò tardi, con un’erudizione costruita sulla passione, al mestiere di scrittore. Ma non mancò di trasferirvi il gusto per l’osservazione accurata delle persone e delle cose, da ritrattista più attento alla fedeltà al vero che alla gradevolezza dell’effetto finale. Gli riuscì, soprattutto, di non diventare come quelli che criticava: “Mi piace stare a tavola con pochi amici, chiacchierare come viene del più e del meno. Non mi piace essere sempre saggio o mirare sempre alla saggezza. Ho abbastanza da fare con i letterati e i loro intrighi, le questioni, i critici, gli attori, lo scrivere saggi e non voglio portarmeli appresso quando vado fuori per svagarmi in compagnia. In queste occasioni desidero essere considerato una persona di buon umore; e in cambio della mia socievolezza tutto quello che chiedo e un po’ di benevolenza. Non voglio porre continuamente a me stesso e agli altri delle domande sul destino, sul libero arbitrio, sulla prescienza assoluta, ecc. Qualche volta devo rilassarmi un po’. Ogni tanto, come il maggese, devo rimanere incolto”.
Nicoletta Tiliacos, Il Foglio

William Hazlitt
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